IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la   seguente   ordinanza   sulla   questione   di
 legittimita'  costituzionale  sollevata  dal pubblico ministero degli
 artt. 513 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge 7  agosto  1997,
 n.  267  e  6,  comma quinto, della medesima legge, in relazione agli
 artt. 3, 25, 101, 111 e 112 Cost. nel procedimento  contro  Lo  Gerfo
 Paolo + 3, imputati come da decreto che dispone il giudizio;
   All'esito della discussione osserva;
   Al  termine  delle indagini preliminari veniva disposto il giudizio
 nei confronti di Lo Gerfo Paolo, Carboni Armando, Floris Mauro e Gioi
 Pierpaolo per i delitti di rapina aggravata perche' commessa da  piu'
 persone   riunite,   travisate,   mediante   uso  di  armi  ai  danni
 dell'Agenzia n. 1 del Banco di Sardegna di Cagliari.
   Nelle more della celebrazione del dibattimento, entrata  in  vigore
 la  legge  7  agosto 1997, n. 267, il pubblico ministero, avvalendosi
 della facolta'  accordatagli  dal  primo  comma  dell'art.  6,  legge
 citata,  chiedeva  e  otteneva  incidente  probatorio onde procedersi
 all'esame del Lo Gerfo e del Carboni, che in sede di indagini avevano
 reso ampia confessione chiamando altresi' in correita' il Floris e il
 Gioi, nei cui confronti, in ragione di tali  accuse,  riscontrate  da
 altri  elementi,  era stata emessa ordinanza di custodia cautelare in
 carcere, eseguita e tuttora in corso per il Floris,  mentre  rimaneva
 ineseguita per il Gioi, latitante.
   In  sede  di  incidente  probatorio  il  Lo  Gerfo  e il Carboni si
 avvalevano della facolta' di non rispondere.
   Ribadivano detta volonta' anche  nel  dibattimento,  ove  rendevano
 peraltro    spontanee    dichiarazioni   negando   la   loro   stessa
 responsabilita';  su  richiesta  del  pubblico   ministero   venivano
 acquisiti   al   fascicolo   per  il  dibattimento  i  verbali  delle
 dichiarazioni rese  dai  predetti  nel  corso  delle  indagini,  gia'
 acquisiti  in  sede  di incidente probatorio; tutti i difensori degli
 imputati negavano il consenso all'utilizzazione,  nei  confronti  dei
 loro assistiti, dei suddetti verbali.
   All'esito  del  dibattimento  il  pubblico ministero concludeva nel
 merito  chiedendo  la  condanna  di  tutti  gli  imputati,  ritenendo
 l'utilizzabilita'  a carico di tutti delle dichiarazioni rese in sede
 di indagine da Lo Gerfo e Carboni, ai sensi della  norma  transitoria
 di  cui all'art.   6, comma quinto, legge citata e valutando comunque
 la  sufficienza  delle  ulteriori   risultanze   dibattimentali.   In
 subordine,  sollevava  questione  di  legittimita' costituzionale sia
 della  norma  transitoria  citata,  sia  della   nuova   formulazione
 dell'art. 513 c.p.p.
   I  difensori  degli  imputati  concludevano  tutti chiedendo in via
 principale l'assoluzione dei loro assistiti, quelli  di  Lo  Gerfo  e
 Carboni,  in  via  subordinata,  chiedevano  il  riconoscimento delle
 circostanze   attenuanti   generiche;    si    opponevano    comunque
 all'accoglimento  della questione di legittimita' costituzionale e in
 caso  di  accoglimento  della  stessa,   chiedevano   la   revoca   o
 l'attenuazione della misura cautelare in atto nei confronti di Floris
 e Gioi, richiesta subordinata cui si associava pubblico ministero.
   All'esito  della discussione il tribunale ritiene rilevanti ai fini
 della decisione  e  non  manifestamente  infondate  le  questioni  di
 legittimita' costituzionale prospettate.
   In  ordine  alla  rilevanza,  deve  osservarsi  in primo luogo che,
 contrariamente all'assunto del pubblico ministero, non e' applicabile
 al caso di specie la norma transitoria di cui al quinto comma citato.
   La tesi avanzata dal pubblico ministero si basa sia sul  fatto  che
 nel  corso dell'incidente probatorio il g.i.p. aveva gia' acquisito i
 verbali delle precedenti  dichiarazioni  rese  dal  Lo  Gerfo  e  dal
 Carboni, sia sul tenore letterale del quinto comma dell'art. 6, legge
 7  agosto 1997, n. 267 che, nel prevedere "la citazione delle persone
 indicate nei commi precedenti" comprenderebbe anche quelle di cui  al
 primo comma, che contempla appunto l'incidente probatorio.
   In  realta',  nonostante il suo tenore letterale, l'interpretazione
 sistematica della disposizione in esame   conduce a ritenere  che  il
 quinto  comma  si  riferisca  esclusivamente ai casi in cui alla data
 dell'entrata in vigore della nuova legge sia stata gia'  disposta  la
 lettura in dibattimento dei verbali delle dichiarazioni delle persone
 indicate dall'art. 513 c.p.p.
   Infatti,  l'incipit  del  quinto  comma  va  letto  in relazione ai
 precedenti commi  da  2  a  4,  in  cui  e'  fatto  riferimento  alla
 possibilita'  che le parti richiedano la citazione per un nuovo esame
 delle persone indicate dall'art 513 c.p.p le cui dichiarazioni  siano
 state  gia'  acquisite per la loro lettura; mentre non puo' riferirsi
 anche ai casi di cui ai primo comma  perche'  la  ratio  della  norma
 appare ispirata all'esigenza di salvaguardare l'utilizzabilita' - sia
 pure  in  misura  limitata - di quelle prove, quando siano state gia'
 validamente acquisite ai fini della decisione sulla base delle  norme
 anteriormente vigenti.
   Nei casi descritti dalla norma in relazione ai commi 2, 3 e 4 dello
 stesso  articolo ci si trova, infatti, in una fase processuale in cui
 si  e'  gia'  avverata,  per  effetto  dell'avvenuta  lettura   delle
 dichiarazioni  dei  chiamanti  in  correita',  la  sottoposizione  al
 giudice di elementi di prova inerenti  la  responsabilita'  di  altri
 imputati.
   Situazione   che   ha   imposto   al   legislatore  il  transitorio
 contemperamento  tra  il  principio  -  introdotto  dalla  novella  -
 dell'esclusiva formazione in contraddittorio tra le parti (o sotto il
 "controllo" delle medesime, a favore delle quali e' all'uopo prevista
 dal  secondo  comma  la  facolta'  di  richiedere  la  citazione  dei
 dichiaranti)  della  prova   costituita   dalle   dichiarazioni   dei
 coimputati  e  imputati in procedimento connesso con il principio del
 libero  convincimento  del  giudice:  contemperamento  che  e'  stato
 attuato  attraverso  il  non  impedire  che tali dichiarazioni, quali
 elementi di prova, rientrino nel novero degli elementi valutabili dal
 giudice, e nella contemporanea indicazione dell'ambito entro cui egli
 puo' valutarle come prova dei fatti affermati.
   Il primo comma dell'art. 6 di detta legge, invece, introduce  nella
 disciplina transitoria la facolta' del pubblico ministero di chiedere
 l'incidente  probatorio anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio,
 istituto che non ha alcuna relazione con le ipotesi di cui  ai  commi
 seguenti dello stesso articolo; nonostante l'imprecisione della parte
 iniziale,  il quinto comma e' quindi applicabile soltanto nei casi in
 cui sia gia' avvenuta l'acquisizione  dibattimentale  delle  suddette
 dichiarazioni,  cioe'  la  sottoposizione  di  esse quali elementi di
 prova al giudice del dibattimento.
   Esclusa  l'applicabilita'  al  caso  in  esame   della   disciplina
 transitoria,   appare   evidente  la  rilevanza  delle  questioni  di
 legittimita' prospettate, il  cui  accoglimento  inciderebbe  sia  in
 riferimento  agli  imputati Floris e Gioi, sia agli stessi Lo Gerfo e
 Carboni,  le  cui   dichiarazioni   confessorie,   pur   utilizzabili
 rispettivamente  nei  confronti di chi le ha rese, non possono essere
 valutate ai fini  del  riscontro  reciproco,  ed  essendo  l'impianto
 accusatorio   del  processo  fondato  principalmente  sulle  predette
 dichiarazioni. Innanzitutto, sulle dichiarazioni del Carboni, che per
 primo confesso'  la  sua  partecipazione  alla  rapina  chiamando  in
 correita'  il carabiniere Lo Gerfo e due "desulesi", poi identificati
 in Gioi e Floris; anche Lo Gerfo confesso' la sua partecipazione alla
 rapina, attribuendo a se' ed a Carboni un ruolo di "copertura", anche
 per  la sua funzione di carabiniere e chiamando pure lui in correita'
 i due "desulesi", che riconobbe nelle fotografie di Floris e Gioi.
   Il  nuovo  testo  dell'art.  513,  comma  primo,  c.p.p.,  infatti,
 impedisce  qualsivoglia utilizzazione dei verbali delle dichiarazioni
 rese in sede di indagini preliminari da Lo Gerfo e da Carboni - si e'
 detto, acquisite, previa lettura, al fascicolo  per  il  dibattimento
 dopo  che  detti  imputati  si  sono  avvalsi  della  facolta' di non
 rispondere - quali prove dei fatti in  essi  affermati  in  relazione
 alla  responsabilita'  di  Floris  e  di  Gioi, imputati dei medesimi
 delitti, ed anche come riscontro reciproco  delle  dichiarazioni  dei
 confitenti.
   Le dichiarazioni rese nella fase predibattimentale da Lo Gerfo e da
 Carboni,  contengono,  per  un  verso,  ampia confessione da parte di
 ciascuno delle rispettive responsabilita', per altro verso,  chiamate
 in correita' di tutti i coimputati.
   E  di  palese evidenza e' la necessita' di consentire al giudicante
 di giungere alla decisione attraverso una valutazione unitaria  delle
 dichiarazioni di Lo Gerfo e Carboni con quella degli altri elementi -
 da  soli  non  sufficienti  a  costituire  fondamento  di  un  sicuro
 convincimento  -  emersi  nei  confronti  di   tutti   gli   imputati
 dall'istruzione dibattimentale finora svolta.
   La  decisione  della  Corte  adita  di accoglimento delle questioni
 prospettate inciderebbe pertanto nel presente procedimento.
   Stabilita la rilevanza della sollevata questione di  illegittimita'
 costituzionale  sia  della  norma  transitoria  citata,  per  la  sua
 inapplicabilita'  anche  nel  caso  di  specie,   sia   della   nuova
 formulazione  dell'art.  513 c.p.p, deve altresi' evidenziarsi la non
 manifesta infondatezza delle stesse per contrasto con  gli  artt.  3,
 25, 101, 111 e 112 Cost.
   Al riguardo, deve innanzitutto osservarsi che le dichiarazioni rese
 dall'imputato prima del dibattimento all'autorita' giudiziaria o alla
 polizia  giudiziaria  delegata dal pubblico ministero, allorquando lo
 stesso imputato  non  si  presenta  volontariamente  al  dibattimento
 ovvero   ivi  si  avvale  della  facolta'  di  non  rispondere,  sono
 sicuramente  atti  irripetibili,  poiche'  la  mancata  presentazione
 dell'imputato  o  l'esercizio  da parte sua del diritto al silenzio -
 atti di concreto esercizio del diritto alla difesa,  "inviolabile"  e
 quindi  incondizionato  ai  sensi dell'art. 24 Cost. - configurano un
 caso di sopravvenuta non ripetibilita' delle dichiarazioni  pregresse
 che  consegue  all'assolutamente  imprevedibile  verificarsi  di  una
 condizione potestativa, situazione modificativa in ordine alla  quale
 non  puo'  ipotizzarsi a carico del pubblico ministero alcun onere di
 diligenza quanto alla prevedibilita' e all'evitabilita',  tanto  piu'
 perche' successiva ad atteggiamenti processuali di segno contrario.
   Cio'  e' stato chiarito proprio in occasione di un intervento della
 Corte costituzionale sul secondo comma   dell'art. 513  c.p.p.  nella
 formulazione  previgente,  allorche'  la Consulta, con la sentenza n.
 254/1992, dichiarando l'illegittimita' costituzionale di detto comma,
 rilevo'  l'irrazionalita'  del  trattatnento  differenziato  riguardo
 all'utilizzabilita'     delle     dichiarazioni     predibattimentali
 dell'imputato in procedimento connesso che si rifiutasse  di  rendere
 l'esame  dibattimentale  non  solo in relazione alla disposizione del
 primo comma dell'allora vigente  art.  513  c.p.p.  ma,  soprattutto,
 riguardo  alla  diversa  regola generale dettata dal nostro codice in
 ordine alla necessaria  sottoposizione  al  giudice,  ai  fini  della
 decisione,  di  ogni  atto che sia ab origine irripetibile o tale sia
 divenuto per causa sopravvenuta ed imprevedibile.
   E  d'altro  canto  la  conseguenza  introdotta  dalla  novella   al
 verificarsi di tale condizione, cioe' l'attribuzione agli interessati
 della  facolta'  di sottrarre alla conoscenza del giudice elementi di
 prova  legalmente  emersi  nel  corso   delle   indagini,   determina
 un'evidente  violazione  dei principi cardine sui quali e' fondata la
 nozione di processo e la stessa funzione giurisdizionale.
   lnnanzitutto, il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale,
 teso a realizzare nell'ambito del principio  di  legalita'  affermato
 dall'art.   25,   secondo   comma,  della  Costituzione  la  concreta
 uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale,  il  quale  ha
 come  necessario  postulato  il  principio di tendenziale completezza
 delle indagini, in quanto  esse  sono  rivolte  a  quell'accertamento
 della  verita'  che  e'  fine,  secondo  la stessa Corte, primario ed
 ineludibile del processo penale.
   Il principio  dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  in  quanto
 rivolta  all'accertamento  della verita' trova logico complemento nel
 principio di difesa, proprio perche' l'affermazione di quella verita'
 da parte del giudice, alla quale il processo e' diretto, e' garantita
 soltanto attraverso il pieno dispiegamento della  difesa  nell'ambito
 di esso.
   Tra  i  vari  metodi  attraverso i quali la prova puo' formarsi per
 essere sottoposta  alla  valutazione  del  giudice  affinche'  questi
 pervenga   attraverso   l'accertamento   della   verita'   alla   sua
 affermazione, il legislatore del 1988  ha  quindi  privilegiato,  con
 riferimento alla fase dibattimentale, quello dell'oralita', che della
 difesa  consente  senz'altro il massimo dispiegamento, ma soltanto in
 quanto questo metodo di conoscenza dei  fatti  e'  ritenuto  il  piu'
 idoneo al loro pieno accertamento.
   Tuttavia   tale   metodo   -   riservato,  come  si  e'  detto,  al
 dibattimento,  benche'  esso  non  costituisca  se  non   una   delle
 eventualita',  e  nemmeno  la favorita, di conclusione del processo -
 anche nel dibattimento rappresenta il modo precipuo, ma non esclusivo
 di formazione  della  prova,  essendosi  gia'  in  diverse  occasioni
 progressivamente   ritenuto   dalla  Corte  (sentenze  nn.  255/1992,
 88/1991, 255/1992, 111/1993) che, sulla base  del  principio  di  non
 dispersione  delle  prove  (sentenza  n.  255/1992),  venga accordato
 rilievo ad atti formatisi prima  e  al  di  fuori  del  dibattimento,
 individuando  la  ragione  di  tale  rilievo  nella necessita' di non
 permettere il frapporsi di  ostacoli  irragionevoli  al  processo  di
 accertamento  del  fatto storico necessario a pervenire ad una giusta
 decisione.
   Proprio nel principio del libero  convincimento  del  giudice,  sul
 quale   soltanto   puo'   essere  fondata  la  giusta  decisione  che
 rappresenta il fine del processo e dei cui presupposti il giudice  e'
 tenuto  a  dare  conto  nella motivazione, trovano ragione le diverse
 ipotesi di deroga al  principio  dell'oralita'  presenti  nel  nostro
 sistema   processuale,   cosi'  come  l'impossibilita'  (sentenza  n.
 111/1993) delle parti di vincolare - sulla  base  di  un  inesistente
 principio dispositivo in materia - la conoscenza del giudice riguardo
 alle  prove  ed  il  correlativo  potere - assegnatogli dall'art. 507
 c.p.p.  in armonia con l'obbiettivo di rimuovere le disuguaglianze di
 fatto di cui all'art.    3,  secondo  comma,  della  Costituzione  di
 intervenire  per  supplire alle carenze probatorie di una delle parti
 onde  evitare  assoluzioni  o  condanne   immeritate   (sentenza   n.
 241/1992).
   In  sostanza,  come  piu'  volte  affermato  dalla Corte i principi
 dell'oralita' e del contraddittorio,  pur  costituendo  la  base  del
 nuovo   processo,   ammettono  deroghe  costituzionalmente  legittime
 ispirate alla necessita' di  contemperare  i  predetti  principi  con
 l'esigenza  di  evitare  la perdita ai fini della decisione di quanto
 formatosi prima del dibattimento e che sia in tale sede irripetibile.
   E'  evidente   pertanto   l'incongruita'   rispetto   ai   principi
 costituzionali, della disciplina denunciata, allorquando fa dipendere
 il  dispiegarsi  del  contraddittorio  dibattimentale  dall'esercizio
 della facolta' di non sottoporsi  all'esame da parte di imputati  che
 in  sede  di  indagine  abbiano  reso  dichiarazioni  accusatorie nei
 confronti di
  altri, e che alla mancanza del contraddittorio, nell'ipotesi in  cui
 costoro  non si presentino al dibattimento o  rifiutino di sottoporsi
 all'esame incrociato, fa conseguire l'impossibilita' per  il  giudice
 di    conoscere    le   dichia-razioni   eteroaccusatorie   da   essi
 precedentemente - e validamente - rese,  dalle  quali  frequentemente
 tra   l'altro hanno tratto origine ulteriori atti e provvedimenti (ad
 esempio, perquisizioni, sequestri, applicazione di misure  cautelari,
 dei  cui  verbali  invece  e'  prevista  la necessaria conoscenza del
 giudice).
   Tanto piu' se si considera - attesa la  mancata  previsione  di  un
 obbligo  di  motivare  il  loro  mutato  atteggiamento  processuale -
 l'anomalia rappresentata dall'ulteriore impossibilita' che il giudice
 valuti le  ragioni  dell'irripetibilita'  dell'atto,  particolarmente
 irragionevole   soprattutto  per  l'impossibilita'  di  accertare  in
 seguito a  questo  immotivato  mutamento  di  scelta  processuale  le
 ragioni  che  lo  hanno  determinato,  posto  che  esso potrebbe aver
 trovato origine anche in attivita'  delittuosa  posta  in  essere  da
 altri  o  comunque estranea all'esercizio del diritto di difesa (cosa
 che, tra l'altro, potrebbe essersi  verificata  nel  procedimento  in
 corso,  in  cui e' stata acquisita tra le dichiarazioni dell'imputato
 Carboni una sua denuncia di patite minacce).
   In proposito, occorre mettere in rilievo che,  pur  trattandosi  di
 situazioni  diverse  dettate  per  l'esame  del    testimone  nei cui
 confronti vengano mosse contestazioni, sembra irragionevole non  dare
 alcuna   rilevanza   alle  sopravvenute  ragioni  di  irripetibilita'
 dell'atto quando tali ragioni - se riguardano attivita' dirette a far
 dichiarare il falso o a non deporre o comunque situazioni  che  hanno
 compromesso  la  genuinita'  dell'esame  -  comportano,  ai sensi del
 quinto comma dell'art. 500 c.p.p., l'assunzione del valore  di  prova
 piena delle dichiarazioni oggetto di contestazione.
    I  dubbi  di  costituzionalita' del nuovo art. 513 c.p.p. emergono
 tanto piu' se si considera che in un'ipotesi invece del tutto analoga
 altri  atti,  analogamente  irripetibili   come   quelli   scaturenti
 dall'esercizio della facolta' dei prossimi congiunti dell'imputato di
 astenersi  dal  deporre,  alla  sola  condizione che le dichiarazioni
 precedentemente rese siano state validamente assunte, possono  essere
 acquisite e utilizzate come prova.
   In  questo  caso  infatti  la Corte costituzionale, dichiarando non
 fondata  la  questione  di  costituzionalita'  mossa  in  riferimento
 all'art.   512 c.p.p. nel caso di prossimo congiunto che, ritualmente
 avvertito della facolta' di astensione, aveva reso  dichiarazioni  in
 sede  di  indagini preliminari e si era avvalso della citata facolta'
 soltanto  in  sede  dibattimentale,  ricorreva   ad   una   pronuncia
 interpretativa  che  concludeva  nel senso che la testimonianza cosi'
 acquisita e' legittimamente e soprattutto stabilmente acquisita... ed
 e'  certamente  fuor  di  dubbio  che  l'acquisizione   della   prova
 testimoniale  legittimamente  assunta  non  puo'  essere condizionata
 dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste,
 nel caso di un suo tardivo esercizio  della  facolta'  di  astensione
 (sentenza  n. 179/1994).
   Secondo  la  Corte costituzionale, quindi, in casi consimili pur in
 presenza dell'esercizio di un diritto, si  determina  un'oggettiva  e
 non prevedibile impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo,
 che   viene   acquisito   mediante   lettura   e   quindi  fuori  del
 contraddittorio dibattimentale.
   Cio' significa che  il  principio  del  contraddittorio,  di  rango
 costituzionale e richiamato dall'art. 6, lett. d),  della convenzione
 per  la  salvaguardia  dei  diritti dell'uomo, ratificata con legge 4
 agosto  1955,  n.  848,  nel  contemperamento  con   altri   principi
 costituzionali  e'  stato  gia'  ritenuto dalla Corte suscettibile di
 ragionevoli e giustificate eccezioni.
   In definitiva,  il  tribunale  si  e'  trovato  di  fronte  ad  una
 situazione  in  cui  l'assunzione della prova e' stata inibita da una
 scelta   processualmente   imprevedibile   dei   dichiaranti    senza
 possibilita'   di   qualsivoglia   utilizzazione   delle   precedenti
 dichiarazioni erga alios.
   Cio, per le ragioni anzidette, lede  il  principio  di  uguaglianza
 sotto  il  profilo  che  vi  e'  una  disparita'  di  trattamento con
 situazioni  consimili  in  cui  non  e'   accordato   alcun   rilievo
 all'eventuale  dissenso  delle  persone  raggiunte  da  dichiarazioni
 accusatorie, essendo consentita l'utilizzazione di atti  dichiarativi
 formatisi prima del dibattimento e poi divenuti irripetibili.
   Senza  considerare  che tale scelta non puo' ritenersi giustificata
 dall'esercizio del diritto di difesa, certamente di preminente valore
 costituzionale,  data  la  piena  utilizzabilita'  delle   precedenti
 dichiarazioni  proprio  contro chi le aveva rese e si sia poi avvalso
 della facolta' di non rispondere.
   In questo caso, tra l'altro, viene attribuito alla parte privata un
 potere dispositivo alla prova e un potere di paralizzare  le  opposte
 deduzioni  a  fronte  del dovere del pubblico ministero di fornire al
 giudice l'intero materiale probatorio acquisito al fine di attuare la
 finzione del processo che  e'  quella  di  pervenire  ad  una  giusta
 decisione.
   Funzione  che verrebbe frustrata subordinando ad insondabili scelte
 strategiche del dichiarante la stessa    conoscenza  delle  prove  da
 parte  del giudice, con violazione del principio della sottoposizione
 dello stesso alla  sola legge.
   Ulteriore aberrante conseguenza della  disciplina  del  nuovo  art.
 513  c.p.p.  e'  costituita  dalla possibilita' che il dichiarante si
 sottragga all'esame dibattimentale delle parti  in  un  procedimento,
 con cio' rendendo inconoscibili o inutilizzabili erga alios davanti a
 quel  giudice le proprie precedenti dichiarazioni, e che invece in un
 diverso procedimento a carico di  altre  persone  risponda  all'esame
 consentendo  l'ingresso  nel  dibattimento  delle  stesse  precedenti
 dichiarazioni, assegnando loro quindi valore di prova per il  giudice
 di  quel procedimento (l'ipotesi non e' affatto astratta, se si tiene
 presenti i casi non infrequenti di procedimenti che,  originariamente
 uniti,   per   diverse   ragioni   approdano  separatamente  in  sede
 dibattimentale): con evidente gravissima violazione sia  dell'art.  3
 sia dell'art. 101, secondo comma, Cost.
   Sotto  altro profilo, la nuova disciplina contrasta altresi' con il
 principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale perche' sulla  base
 delle  dichiarazioni  rese  nel  corso  delle  indagini  il  pubblico
 ministero,  effettuati   i   necessari   riscontri,   puo'   chiedere
 provvedimenti  limitativi  della liberta' personale e ha l'obbligo di
 esercitare  l'azione   penale,   il   cui   esercizio   puo'   essere
 sostanzialmente  vanificato  nel  caso  in cui in dibattimento quello
 stesso dichiarante si avvalga della facolta' di non rispondere.
   L'irragionevolezza della nuova disciplina e' ancora  piu'  evidente
 nei  casi,  come  quello in esame, in cui all'entrata in vigore della
 nuova legge le  indagini  erano  ormai  chiuse,  ed  era  stata  gia'
 esercitata  l'azione  penale  con  il rinvio a giudizio degli attuali
 imputati, proprio, in prevalenza, sulla base di dichiarazioni che non
 possono essere utilizzate nel dibattimento contro  altri.  In  questi
 casi,    infatti,   assume   carattere   di   maggiore   gravita'   e
 irragionevolezza la sottrazione alla conoscenza  del  giudice  di  un
 materiale probatorio non piu' surrogabile non avendo piu' il pubblico
 ministero  la  disponibilita' delle indagini e non potendo che subire
 la scelta processuale degli interessati.
   Sotto  questo  profilo,  la  mancata  estensione  della  disciplina
 transitoria   ai  casi  in  cui  il  pubblico  ministero  abbia  gia'
 esercitato l'azione penale appare lesiva del principio costituzionale
 dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
   In definitiva la scelta del legislatore, pur ispirata dalla  giusta
 esigenza  di  garantire  che  il  diritto di difesa degli accusati si
 attui nel contraddittorio orale ha comportato  la  lesione  di  altri
 principi  pure  di  rilievo  costituzionale  senza  alcun ragionevole
 tentativo di contemperamento.